​Lo sconfitto

Racconti di persone e di allenamenti nel tempo hanno riempito le note dello scriba. E l’ultimo Stoneman doveva essere l’occasione per uno scritto epico, il resoconto delle gesta dei prodi atleti. Preparo gli appunti, ma dopo giorni di ripensamenti mi convinco che le immagini sono più espressive delle parole. E allora, che bastino le lacrime e il sorriso della Cristina a illuminare l’essenza dei Vincitori – a cui va tutto il mio affetto. A completare la leggenda i fotogrammi delle fasi finali della loro fatica, esaltata dagli incitamenti della onnipresente tifoseria DTTRI. La festa tocca il suo apice alle pendici del Paradiso.
Salgo alle lingue aride del ghiacciaio affiancato da Beatrice ed Elia, lieto di essere deriso e confortato per la mia conclamata vecchiaia, a loro dire. La Cinzia che insegue le lucciole chiude il sipario della recita. A precedere il sonno la malinconia dell’indicibile, nella profondità del poeta, dei Vinti.
Rimugino come lo sguardo si posa sempre su coloro che compiono l’impresa, al più buffetti e carezze sono riservati agli esclusi. La storia la scrivono gli eserciti vincenti. Fatichiamo ad interrogarci sulle ragioni degli sconfitti, sull’arrendersi durante la gara, sul rinunciare al traguardo. L’affollarsi delle domande negli attimi che precedono la frontiera della decisione. Eppure senza avere risposta, molti o tutti noi abbiamo lacerato quella sottile linea del destino. 
E così decido di appropriarmi della parola -  don Milani mi autorizza -  mi nomino giudice imputato.
Iniziamo dagli antefatti: febbraio, rottura ossicino del gomito provoca riposo prolungato dal nuoto e prudenza con la bicicletta. Impegni lavorativi, nella misura soft del “profe”, causano distrazioni e tagli alla preparazione. Ultimo ingrediente malevolo il clima primaverile non propizio, piovaschi intensi e duraturi dettano i tempi e i percorsi. Fortuna che il buon Pier apre le porte dalla magione a Levanzo. Stage dedicato alla corsa nuoto nelle Egadi in fiore. Accidenti Mauro si ammala.
I giorni trascorrono e il sollievo del fine carriera, minuzie accademiche, concludono anni di ridicoli patimenti. La leggerezza raggiunta è turbata da una immagine sepolcrale: la pozzanghera verdastra, male odorante, limacciosa, oscura, fetida, gelata, ingarbugliata, mefitica. In altri termini, il lago d’Iseo. I suoi tratti lugubri delineano la metafora dell’ignoto, della buia caverna.
La frazione nuoto, da sempre la più ostica, causa incubi e tormenti. Più leggo le istruzioni, più cresce la paura. Partenza notturna, al buio, tuffandosi da una piattaforma mobile. Tracciato disegnato da un geometra alle prime armi: polimero dagli angoli ottusi. Boe disseminate tra le isole. Forme ancestrali risalgono dalle oscurità degli inferi.
L’unico antidoto e difesa contro le tenebre è la ragione. Mi affido al potere della mente, al mito dei lumi. Infinitamente evocata nella lunga distanza, attende l’avvio di segnali positivi dagli arti inferiori, chiamati a sorreggere l’intero sforzo, ben supportati dalle braccia rotanti. I segnali sono flebili, arrivano in modiche dosi quotidiane. Sempre sotto l’asticella dei bisogni del tossico cronicizzato.
La tauromachia continua, le forze opposte spingono verso la fatidica data: 9 luglio.
8 luglio: i preparativi. La tensione latente inizia a coagulare le energie sparse. Decido di dormire in solitudine, a pochi metri dall’amico Antonio. Le ore notturne trascorrono nella veglia dell’attesa. Muscoli contratti e punture di crampi scandiscono i minuti. Nulla di nuovo, è sempre accaduto prima delle gare.
Mi conforta il ricordo dell’effetto distensivo che segue lo sparo d’avvio. Confido che si ripeta anche questa volta.
1.30: iniziano i preparativi con la colazione e la vestizione. Bici: pronta. Vestiario distribuito nelle sacche. Carburante pesato, contato e inserito nelle tasche, nelle scarpe, nelle calze. Gli affluenti convergono: Mauro alle prese con la muta; Giannino saluta e ordina foto; Cesare scorrazza sorridente; Cristina ride e motteggia. Ivo Diego Ale Stefano presenti e silenti. Tutto procede come da copione.
Si parte. La sceneggiatura incede con roboanti botti e fiammate improvvise, si alternano pezzi musicali d’annata, il tutto si svolge con toni arditamente fastosi.
Fermo macchine, il battello frena. Arrivano le spiegazioni della direzione gara. Tutto facile. Qua, là, su, giù, a destra, a sinistra ci sono le boe, tenetele alla vostra destra e arriverete freschi e veloci al traguardo.  Sarà. Io non ne vedo nemmeno una. Scorgo solo ceri lontani, fievoli, confusi sullo sfondo delle coste. Mi affido al consiglio di inseguire i lumini dei concorrenti. Mi getto in acqua, sicuro di dover superare il solito panico dei primi 300 metri. Lo supero come pure la prima Grande Boa, viro e tutto si spegne. Riferimenti assenti: unico indizio un grande iceberg oscuro nel mezzo. Sarà l’isoletta, bracciate sicure, cadenziate e ritmiche. Voci sconnesse mi fermano e mi urlano, con poco senso del ridicolo puntandomi un faro negli occhi, che non “vedo” il punto luminoso giusto. Scopro che bellamente me ne stavo andando a Montisola. Impreco contro la natura e la fallibilità dell’essere umano.
Rimesso in corsia arrivo alla prima barca e decido che l’agonia abbia fine. L’amico Walter “self” non è d’accordo, mi convince a ripartire. L’alba supera gli speroni montani e la luce illumina la chiesa di Marone. Ricomincia la conta dei gesti: cinquanta bracciate, una sbirciata, e via a ripetere.  Esito: due ore di nuoto contro l’una e venti preventivata. Distanza percorsa: tanta, troppa.
T1 completato e allietato dagli incoraggiamenti di Daniele Arcari e Fabry. Pedalo in solitudine. Pisogne, Breno, Edolo, il fondo valle per quanto lungo, poco assolato, è scandito dai resti del passato - dai pitoti alla più recente e dolorosa archeologia industriale – e finalmente giunge al termine. Inizia l’ascesa. Pure la tensione ha deciso di salire, dai gemelli all’adduttore sinistro. Fatico a distendere la gamba, spingo come un motore a metà cilindri, per di più scarburati.  Batte in ugual modo la testa. Ad alleviare lo sforzo la serenità dei luoghi. Colori e profumi si susseguono nell’incanto di paesaggi montani. Delicate sono le tracce degli indigeni. La lentezza del pedalare soccorre il divagare dello sguardo. L’anima bucolica va interrotta: la gara ha la precedenza.  
La salita non salita del Mortirolo alterna strappi e pause, certo non li prediligo anzi sono l’esatto opposto delle mie preferenze, sempre nette nei colori e nelle declinazioni. Pare siano scelte per favorire l’accumulo di sensazioni negative, i brutti pensieri dilagano. Confesso ex post, non presumo di razionalizzare ex ante, rivivo i momenti che mi conducono al sottile confine della scelta. Superarlo in un verso o nell’altro si rivela essere il senso ultimo della sfida, la ragione per cui ho voluto esserci. Entrambi i versanti aprono a orizzonti inesplorati. Continuare impone alla mente di governare il corpo, assecondarne i desideri e sopprimerne i lamenti. Fermarsi mi proclama sconfitto e mi sottopone al pubblico ludibrio. Eppure ne sono attratto. Arrivo a Ponte di Legno, telefono per annunciare il ritiro, ben consapevole che il sollievo apre ad una liturgia inedita. Seguo le indicazioni per l’albergo, saluto le frecce per il Gavia.
Sentenza. Recito la formula di rito: SCONFITTO.
Inciso: ho trovato risibili i sorrisi melensi degli ipocriti, dispiaciuti della resa.
Trascorrono i giorni in solitudine, propedeutica alla elaborazione del lutto. Sorvolo sull’epidermide degli alibi, delle giustificazioni, delle cause esogene. L’essenza della domanda è interiore.
Cosa ha determinato l’esito? Perché ho cambiato atteggiamento rispetto al passato? 
Il limite tanto invocato si mostra nella sua duplice ambiguità. Quale versante scegliere? Perpetuare l’imperativo di varcarlo, o rispettare il suo volere. La gara, la sfida è tale solo se compiuta nel rispetto della morale, originata dentro di noi, unica quanto il nostro essere persona.
I vincitori possono celare, ma non eliminare il “dubbio”; sono costretti a rimuoverlo, a superarlo per compiere l’impresa. Intravedi i sentimenti che a loro ti legano nelle impercettibili note dei loro sguardi.
Lo sconfitto procede sul sentiero opposto del dubbio, se ne impossessa. Lo accoglie interrogandosi sul suo valore. In esso scopro un tratto di verità celata e rinnegata: la volontà della mente e la forza del fisico si completano senza prepotenze. 
Da solo fatico nella comprensione, mi servo di alcuni brandelli di dialogo. Contatto Gigio, per la sua schiettezza. Ascolto gli amici che nel loro affettuoso rispetto pronunciano meditazioni di lungo corso. Il tutto si addensa in una provvisoria e ardita sentenza:
l’assenza di motivazioni ha impedito di superare il limite, tanto evocato e mai interrogato, che in altre occasione costituiva la ragione ultima delle sfide. Oggi mi sento sconfitto nel gioco della prevaricazione, tanto frequentato e inseguito in passato, in favore di una dimensione più debole, perdente ma forse più veritiera del mio essere presente.
La delusione, dolorosa, dei giorni seguenti muta le sue sembianze. L’aver salpato da un porto a lungo, forse troppo, frequentato sottrae certezze. Il futuro riserva la speranza di trovare nuove ambizioni. E pure la misura della sfida ha il suo peso: per essere vera deve contenere il rischio di non scorgere alcun nuovo traguardo.
Il pellegrino segue le indicazioni delle emozioni, si affida al destino, certo della meta e noncurante del viaggio se non per gli amici che lo affiancano. Fiducioso dei loro commenti, consigli, critiche, sberleffi, ironie e quant’altro vorranno appiccicare sui muri della piazza virtuale.
 
 
 

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