La bicicletta per noi del dttri, Spiegarla è capirla, raccontarla è conoscerla

Inizia da un doppio cilindro unito da filiformi oggetti metallici, detti raggi. Compongono la ruota, anzi le ruote. Altre aste verticali, le forcelle, si uniscono al manubrio e la guida è completa. Il telaio: due poligoni essenziali, i triangoli, contrapposti sull’ipotenusa. L’insieme è reso scorrevole da rotondi dentati, addetti a rendere possibili le ascese e veloci le discese.
La catena trasforma l’energia cinetica delle leve inferiori, le gambe, in forza meccanica. Ultimi particolari completano l’oggetto: freni, sellino, prolunghe, ma qui siamo nel sofisticato.
Al dunque, cosa la rende così amata. Direi la semplicità del suo presentarsi. È trasparente, immediata. Le complicazioni sono bandite. L’unica civetteria è il deragliatore, in grado di mutare la fatica e permettere di scalare montagne altrimenti improbe.
Il tempo l’ha resa immutabile, uguale a sé stessa, tanto da divenire la metafora dell’amicizia. Sincera, presente in tutti i momenti, promette quanto mantiene. Se la maltratti o l’offendi, ti restituisce tutto, senza cattiveria ma nemmeno sconti.
L’archetipo di un’amicizia perfetta: zero pedanterie, fraintendimenti, allusioni e tradimenti. Lo specchio simmetrico dei nostri desideri.
La prova sono due squilli: ora e luogo della partenza. Giungono tre pedalatori con le loro biciclette. È felicità. Senza aggiungere parole. Non chiedere, il maturo adolescente ha pronte le risposte. Direzione Gussago, anzi, Rodengo, Provaglio, Sarnico, Tavernole, Vigolo. Gesti ripetuti, versi silenziosi. Ognuno dedica tempo ai preparativi. Si schivano i pericolosi idioti, urlanti e volgari.
Inciso: avete mai notato come questi siano chiusi in involucri metallici che ricoprono il misfatto. Sfruttare l’energia altrui per muoversi: le automobili. Dentro, tutto rannicchiato, il lato malvagio e prevaricatore dell’essere umano.
Passiamo oltre, la loro meschinità presto sarà dimenticata.
Salita: 7 chilometri. I tornanti si susseguono, sempre al loro posto, compresa la retta fatica, né un di più, né un di meno. Svolta per la fontana: acqua ristoratrice, mai dimenticarsela, ricorda il dottore, insieme ai carboidrati, masticano gli altri.
Sobbalzo, subbuglio: l’adolescente maturo è scomparso. Sorridiamo: è partito, la nuova salita lo attende. Si conoscono, si confidano, trovano un accordo di reciproco rispetto. Trascorso qualche minuto, lo raggiungiamo. La strada è chiara, disegnata nella roccia. Parla dei suoi abitanti: dritta, schietta, gutturale come possono esserlo gli abitanti di queste valli. Bergamaschi.
Antonio nelle sue indicazioni assicurava di passaggi segreti, sterrati, in grado di congiungerci alla vetta maggiore, il colle San Fermo. Sarà, qui la strada continua a salire. Il lago è lontano quanto la stupidità di volerlo conquistare con delle traversine di plastica.
Il giovane Red ricorre alla sua sensibile, sincera e spontanea immediatezza: faccio dei lavori, tradotto pedalo alla mia velocità, giusto così per non cadere sull’asse orizzontale della sua Focus. Noi abbozziamo, vai pure, quando la strada finisce aspettaci, o meglio, per non prender freddo torna a prenderci. Poche pedalate, anzi molte, perché lui procedere come un frullatore mai fermo. È sconsigliato imitarlo.
Con il dottore vige lo zig zag della confidenza. Lavora, anzi opera, o per dirla all’anglosassone, learning, a pochi km dal mio loculo natio.  L’eterogenesi della vita.
Ultimi metri di discesa, svolta a destra, direzione Colle San Fermo, breve siparietto. Davide si ferma e solleva la ruota posteriore. Strano modo di cambiare i rapporti. Risposta: “altrimenti rompo la catena”. Tradotto: potrei salire anche con il “52”, ma rischio di ferire la bicicletta. Il Coach e il fratello sono già avanti, provo a seguire il giovane, ma poche pedalate segnano la differenza. Arriverò anch’io, datemi tempo.
Riunito il gruppo, si ammira il paesaggio, scusa per celare la felicità del momento. Entriamo nel rifugio, il dottore cerca di interloquire. Chiede del “Loacker”, o altrimenti detti “wafer”. Non attacca. Dalla barista, netti dinieghi. Viriamo verso dei prosaici e sicuri caffè e Coca.
Inizia la discesa, interminabile quanto l’evoluzione della specie. Epilogo nella civiltà delle macchine. Grumello, Sarnico sono assediate dalle lamiere moventi. Torniamo autistici e in fila, rigorosamente in silenzio, causa scia. Davide pedala e noi ansimiamo. Battiti oltre ogni soglia, l’importante è non demordere altrimenti si rischia di far notte. Tutti in silenzio. Caronte ci guida per le strade assolate di Iseo. Chissà un gelato, il corpo sinuoso di una sfinge del Nord. Scordatevelo. È solo la via più sicura per, si spera, l’ultima salita. Abbozzo delle scuse. Niente, qui sei, qui rimani. E allora Polaveno non avrai il mio scalpo. Pausa, acqua in entrata e in uscita. Si riparte. Al solito si perdono le tracce del giovane e i tre al seguito parlottano, anzi i due, io rimugino scuse più serie per la prossima volta.
Salita e ancora salita. Dall’alto sfreccia un corpo nero dal volto conosciuto. Almeno per chi lo vede. È Marco. Gira la bicicletta e riparte. Altra fatica. Scolliniamo, discesa, svolta a destra e San Giovanni diviene il nuovo orizzonte.  Ultima fermata: fontana con acqua fredda, naturale, gassata. Monco fossimo all’Autogrill.
Seguono curve e strappi, sempre all’insù, passiamo dal loculo in altura del Cap – Lu, vestiamo sottili mantelle e il riposo ci attende. Gussago ritorna. Ormai la direzione è nota. Mauro saluta, deve concionare col Presidente. Davide mantiene la guida. Passiamo dal centro, meno trafficato. Benissimo. Rotonda San Faustino e, ovvio, salita Castello. Ora è veramente finita.
6 ore 7 minuti 145 km. Il dislivello ho smesso di chiederlo dopo i 2000 metri. Questi i dati tecnici. Altri commenti sono inutili.
 

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